La gestione delle diversità nelle aziende nasce negli Stati Uniti negli anni ’90 del secolo scorso col nome di Diversity Management.

Le multinazionali statunitensi hanno acquisito nei decenni una vasta esperienza in materia e l’hanno diffusa ovunque nel mondo. Tale esperienza tuttavia ha un grosso limite: ha irrigidito il Diversity Management in tanti cluster rigidamente separati, ad esempio per persone LGBT, per minoranze etniche, per persone diversamente abili, ecc

Tale rigida classificazione può ingenerare anche resistenze da parte degli stessi interessati alle misure di sostegno ed integrazione nelle aziende a far inquadrare la loro multiforme personalità in una ben determinata tipologia di fronte a tutti.

Il rischio è la “burocratizzazione” delle diversità. La pretesa, ed illusione quasi superstiziosa , di sapere tutto su come inserire e gestire persone con determinate caratteristiche identificative.

La flessibilità nella diversità implica un approccio diverso, meno burocratico e rigido alla gestione delle diversità in azienda, non limitato a singole categorie, oltretutto considerate permanenti ed immodificabili, mentre non è sempre così.

Inoltre le aziende moderne sono sempre più strutture aperte alla società e come tali devono avere un approccio al Diversity Management non più limitato ai dipendenti ma esteso a tutti gli shareholder che ruotano intorno all’azienda.

-fornitori

– collaboratori esterni freelance

– consumatori

– residenti vicino all’azienda, etc

La flessibilità nella gestione delle più diverse risorse umane non deve più essere esclusiva delle industrie dell’intrattenimento, della Tv, della Radio, dei Circhi, della moda e di altre industrie che si caratterizzano per essere fuori da rigidi schemi ed aperte ad ogni novità.  Anche a protagonisti che creano  shock sensoriali che fanno  piazza pulita delle rigidità aziendalistiche come la Lucy dell’omonimo film di  Luc Besson o il comportamento assolutamente fuori schema del protagonista afroamericano di Men in Black nella famosa scena del tavolo spostato per scrivere meglio, fregandosene del fracasso

Flessibilità è anche la sincera meraviglia dell’imprenditore di Torino che ha formato con una borsa di lavoro un ragazzo richiedente asilo della Guinea  perché non trovava Italiani disposti a fare il duro lavoro dei pasticcere e che adesso  lo vorrebbe assumere ma non ci riesce. Inizialmente non pensava lontanamente che fosse integrabile, invece: “Quando è arrivato non sapeva che cosa fosse il pan di spagna», racconta Alessandro Ledda, titolare della pasticceria Dolcearea. «Perché voglio assumere Bucar? Semplice: perché è bravo. Ha lavorato sodo, ha fatto passi da gigante. Vorrei che continuasse a lavorare con me, ma lo Stato italiano non lo permette. E così facendo mi crea un grave danno economico». L’imprenditore torinese, insieme ad altri imprenditori nelle sue stesse condizioni si è associato ad una rete  “SenzaAsilo” per cercare di evitare che richiedenti asilo già formati ed inseribili in aziende siano espulsi.

 

Giovanni Papperini