Sorprendente attacco agli expat ed ai relocati da parte del quotidiano Libero!
il 28/06/2015
In piena guerra globale per l’attrazione dei “talenti” da tutto il mondo, con l’Europa che tenta con la “carta blu UE” di scalfire l’irresistibile attrazione della “carta verde” statunitense nei confronti dei manager ed imprenditori globali, un quotidiano si permette il lusso di criminalizzare gli expat. Considerandoli come il prodotto di “una nefasta fusione di internazionalismo marxista e capitalismo sfrenato”.
Il giornalista Francesco Borgonovo, nell’articolo “La cultura dell’accoglienza che distrugge i popoli” confonde gli expat, i relocati ed il personale altamente qualificato proveniente dall’estero con i richiedenti Asilo e con i migranti economici irregolari, per l’assistenza ai quali l’Italia avrebbe speso oltre due miliardi di euro dal 2011 al 2014, forse anche di più penso io. Ma cosa c’entra questo con gli expat, italiani ,comunitari ed extracomunitari, componenti essenziali degli investimenti diretti esteri che ammontano a centinaia di miliardi di euro e che danno lavoro a diverse centinaia di migliaia di Italiani?
Il giornalista di Libero scrive di una “ideologia dell’accoglienza” come un “un prodotto squisitamente occidentale. Deriva dalla nefasta fusione di internazionalismo marxista e capitalismo sfrenato”
A parte il fatto che la “cultura dell’accoglienza” e non l’ideologia dell’accoglienza è parte integrante della nostra storia almeno fin dai tempi di Omero e che tra le varie denominazioni di Zeus spicca quella di Zeus Xenios, protettore degli ospiti. Cultura con delle regole di rispetto reciproco, tra ospite ed ospitante molto precise. Per il mancato rispetto di una di queste regole, il rapimento di Elena da parte dell’ospite Paride, è scoppiato un conflitto noto come “La Guerra di Troia” ( si veda Oswyn Murray “La Grecia delle origini”, pag 67)
Accenna poi allo “studioso americano Christopher Lasch che avrebbe “ben raccontato nel fondamentale La ribellione delle élite (Feltrinelli) come si sia sviluppata, negli Stati Uniti ma anche in Europa, una classe intellettuale e benestante che ha fatto dello sradicamento e del «nomadismo» le proprie bandiere”
Certamente confermo che con il termine expats si indicano tutte quelle persone soggette a una forte mobilità internazionale di livello elevato, accomunate non tanto dall’appartenenza a una medesima nazionalità, quanto da una sorta di identità “in movimento”, che li distingue e differenzia, per condizioni di vita e bisogni, dai cosiddetti gruppi “stanziali”. Si potrebbe quindi sostenere che l’essere expat sia prima di tutto uno “stato d’animo”, piuttosto che una condizione ratificata da qualche legge.
Sebbene per la maggior parte siano ancora britons, non tutti gli expats sono di origine anglosassone, tra di essi sono anzi rappresentate un po’ tutte le nazionalità, inclusi cittadini italiani che siano temporaneamente ritornati in Italia dopo significative permanenze all’estero. Chi si sente un expat si percepisce come parte di una comunità internazionale con propri usi, consuetudini, indirizzi di riferimento, siti e blog specializzati. In altre parole, come appartenente ad un particolare gruppo di persone non riconducibile a una specifica appartenenza nazionale o etnica”
Tuttavia affermare che l’expat ” ha fatto dello sradicamento e del «nomadismo» le proprie bandiere” è falso.
Gli expat pur immergendosi in altre culture, in altre nazioni, mantengono sempre un forte legame con le proprie radici, che affiancano alla loro condizione di expat senza troncarle. E’ toccante la frase di uno psicologo finlandese che ha vissuto a lungo anche in Italia:
Scrive Kaj Noschis in “The Birth of a Nation Identity” nella rivista finlandese “Expatrium” nel 2001:
“ I belive that we expatriates are like Ulysses. We know that we can return to our roots. As long as we recognize our roots, we can find solace in them, both in our minds and in reality. This is something I want to guarantee for both my children and for myself”.
Anche gli expat inoltre provano i sentimenti espressi dalla parola italiana nostalgia
Può apparire strano ma in un mezzo di comunicazione moderno come Twitter emerge come un fiore bianco in un prato verde la parola italiana “nostalgia”. Che può essere l’agrodolce sofferenza per il desiderio di ritornare in un luogo caro o anche l’emozione che si prova nel risentire una canzone alla radio o tante altre cose.
L’inglese si è diffuso nel mondo anche per la sua speciale capacità di sintetizzare concetti complessi in una o poche parole, in questo caso invece una singola parola italiana viene preferita per il suo più vasto significato all’inglese “homesick” e rappresenta un concetto per il quale in inglese sarebbero necessarie almeno 30 parole.
Fa ancora più impressione ritrovare la parola nostalgia in frasi riferite agli expats. Persone che per definizione non dovrebbero essere troppo legate a determinate località.
Nonostante questo anche gli expats vivono momenti di “nostalgia” per una patria remota, per una famiglia lontana, per un cibo assaggiato nell’infanzia, per la vista di una montagna al tramonto o di un mare all’alba, per una processione in paese in un giorno di festa.
Continua l’articolo di Libero:
“Libri come La classe creativa spicca il volo di Richard Florida e L’infelicità del successo dell’economista Robert Reich sono scesi (da prospettive diverse: entusiasta il primo, più critico il secondo) ancor più in profondità. Eccola, l’élite di oggi, quella per cui la patria è il mondo intero, per cui la delocalizzazione dell’anima è il primo passo verso la realizzazione. Il concetto di nazione va superato, dicono, così come quello di comunità”
E’ falso, anche gli expat riconoscono il valore positivo della uniformità etnica e dei vincoli comunitari e si sforzano di adeguarvisi partecipando con entusiasmo alla vita locale, basta vedere le svariate iniziative diffuse su internet della partecipazione degli expat alla vita locale.
L’uniformità etnica deve tuttavia intendersi come una “condizione transeunte”, in perenne evoluzione, anche per la spinta rinnovatrice dell’apporto di altre culture e della convivenza con altri popoli. Così come una lingua viva si evolve nel tempo e accetta ed ingloba prestiti da altre lingue o dialetti senza per questo snaturarsi, lo stesso l’identità nazionale non potrà che ricevere nuova linfa vitale dall’apporto di altre culture e dagli expat stessi. Una identità nazionale assolutamente statica degenera in razzismo e, francamente, può essere accettata nel 2015 solo come mezzo di difesa estrema per gruppi isolati di indigeni nell’Amazzonia o nei deserti dell’Australia.
L’articolista di Libero scrive:
” Libera circolazione delle merci e degli uomini, dunque. Peccato che tra la merce e l’uomo, alla fine, non si faccia alcuna differenza. Il creativo deve essere sempre pronto a partire, a spostarsi, a cambiare vita e lavoro: nomade, insomma. Ovviamente con un superstipendio e magari con il conto corrente in un paradiso fiscale, la casa a Miami, il capoufficio a Palo Alto e la scrivania a Parigi, che fa tanto Bohème. Pochi legami sociali, e a breve termine. Poche certezze, sempre quelle: se il creativo americano che ha studiato in Europa si trova per caso in Giappone, vuole trovare la sua catena preferita di panini, la sua rivendita di cellulari e magari vuole partecipare a una riunione dentro a un grattacielo disegnato dall’architetto-star che ha progettato casa sua (leggere in proposito Maledetti architetti di Tom Wolfe e No alle archistar di Nikos Salingaros). La differenza non esiste più. O, meglio, esiste come patina: l’individuo, si dice, ha diritto di «esprimere se stesso», ha diritto alla propria originalità. Che si risolve, per lo più, nell’omologazione: gli impiegati di Google possono andare al lavoro in camicia hawaiana e calzoncini, ma è pur sempre una divisa.
La differenza vera è osteggiata. Il patrimonio culturale è un fardello: va bene se produce il ristorante orientale sotto casa, meno se si esprime sotto forma di differenti tradizioni.”
Sorprendente è il passaggio da queste considerazioni, molto superficiali, della vita degli expat a queste:
“Ma poiché tutti possono essere uguali ovunque, ecco che ovunque devono essere garantiti i medesimi «diritti», in particolare i «diritti umani». Il fatto che siano una costruzione occidentale (come mostra Alain De Benoist in Contro i diritti umani e nel recente I demoni del bene) non preoccupa nessuno, né la Boldrini né i suoi discepoli. Il cui atteggiamento si risolve nell’«imperialismo al contrario» di cui parla Pascal Bruckner in La tirannia della penitenza (Guanda). Poiché l’Occidente è il centro del globo e il responsabile di tutti i mali, deve porvi rimedio: per esempio accogliendo gli immigrati, i quali arrivano qui, si dice, in virtù di guerre e carestie provocate per lo più dall’Occidente. Ancora una volta, consideriamo gli altri popoli selvaggi da educare. Scriveva Guillaume Faye – da posizioni completamente diverse rispetto a quelle di Bruckner – che «bisogna smetterla di presentare i Paesi del Sud, e soprattutto l’Africa, come le “vittime” eterne dei malvagi disegni dei Paesi del Nord. (…) Bisogna avere il coraggio di responsabilizzare – e non vittimizzare – i Paesi poveri: le sciagure dell’Africa hanno come causa principale gli africani stessi. Non possiamo ogni volta batterci il petto e sostituirci a loro» (la citazione è da Archeofuturismo, imperdibile, così come Il sistema per uccidere i popoli, entrambi editi da Barbarossa).
Ma lo facciamo. Lo sradicato dell’élite creativa, ovviamente progressista, si sente vicino al «migrante», e si sente colpevole. Quindi espia i suoi peccati accogliendo. Risultato: la civiltà europea viene erosa da due parti. Prima dagli individui che la compongono. Poi da quelli che arrivano da fuori. In fondo, il creativo nomade non ha tempo né voglia di fare figli. E quando li fa, sono peggio di lui: talmente viziati da rifiutare qualunque impiego non sia adatto alle loro aspettative. Gli immigrati allora non solo vanno accolti, ma «servono». Come forza lavoro sostitutiva, se non come schiavi da far lavorare gratis (a discapito dei lavoratori occidentali), come propose un ministro italiano poco tempo fa e come ribadiva ieri la Caritas nel suo decalogo sull’immigrazione, dicendo che i «migranti» vanno «ospitati in esperienze di volontariato civico a favore delle comunità d’accoglienza».
Ma cosa c’entrano questi riferimenti “buonisti” con gli expat che non si sentono di espiare nessun loro peccato?
Continua poi l’articolista ad inserire a forza tutti gli expat tra i “buonisti” ad oltranza:
“Si attua così quella che l’intellettuale francese Renaud Camus (gay e filoisraeliano, dunque non di «estrema destra») chiama «Grande Sostituzione». A un popolo se ne sostituisce un altro. Perché poi l’immigrato, a differenza dell’europeo «internazionalista», alle sue abitudini e tradizioni ci tiene eccome, e vuole conservarle anche nei Paesi in cui si stabilisce. Si compie così quello che Eric Zemmour, nel suo bestseller, ha indicato come «il suicidio francese», che è poi il suicidio dell’Europa intera.
In questo quadro, il profugo è l’eroe del nostro tempo. Egli è la «vittima» perfetta del Maschio Bianco Occidentale (ovvero il Demonio), come scriveva Richard Hughes in La cultura del piagnisteo. E allo stesso tempo è il modello da seguire, l’«avanguardia» di una nuova civiltà, come ha teorizzato la Boldrini. Il profugo supera i confini, che l’élite vorrebbe distruggere per diffondere l’omologazione vestita da compassione. Questa è la cultura da combattere. Difendere il confine, spiega Régis Debray in Elogio delle frontiere, vuol dire preservare il proprio patrimonio e quello altrui. Senza i confini, si erigono muri.
Ed è dai ponti che passano gli invasori. La frontiera non impedisce di scambiare conoscenze e ricchezze. È la migrazione che fa perdere tutto. Ecco perché lo straniero andrebbe aiutato, se serve, nel suo Paese, di cui dobbiamo rispettare il governo e le usanze, pretendendo che anche le nostre siano rispettate. Altrimenti, saremo profughi a casa nostra”
Giovanni Papperini